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LA BANDA DELLA MAJELLA

L’insorgenza del Sud e le ragioni del cosiddetto “brigantaggio”


La storia, purtroppo, è una materia estremamente soggetta a influenze di propaganda e strumentalizzazioni per scopi politici. Ne consegue che talvolta ci venga raccontata in modo quasi fantasioso, magari tacendo maliziosamente su alcuni aspetti, inserendo ad hoc falsità ideologiche oppure inventando di sana pianta eventi mai accaduti e frasi mai dette. Si procede a suon di stereotipi, ubriacando l’opinione pubblica con un calderone di cliché. Una cosa simile è stata fatta ad esempio con le Crociate, ingiustamente denigrate dagli illuministi, storpiate poi dai filosofi marxisti (troppo materialisti per capire motivazioni introspettive) e infine strumentalizzate dagli islamisti dell’impero ottomano in disfacimento. Emblematica è la massima pronunciata in proposito da un famoso storico: “chiedete delle Crociate ad un giornalista e ve ne parlerà male. Chiedete delle Crociate ad uno storico e ve ne parlerà bene”. Sarebbe bello parlare delle Crociate, ma oggi il tema è tutt’altro: in questo breve articolo vi parlerò un po’ dell’unificazione italiana del 1860, del Regno delle Due Sicilie e del cosiddetto “brigantaggio”, che come vedremo potrebbe essere più correttamente denominato “insorgenza” o “patriottismo”.

Lungi da voler essere un articolo completo questo: è soltanto un (umile) modo per interessare il lettore all’argomento e invitarlo, magari, ad approfondire per conto proprio, avendo cura di leggere quanti più libri possibili per avere una visione che permetta di farsi una propria idea (la bibliografia, la webgrafia e la videografia alla fine dell’articolo potrebbero essere un inizio). In teoria questa dovrebbe coincidere con il compito educativo della Scuola (quella con la S maiuscola), ma sappiamo bene quanta manipolazione abbia, purtroppo, inficiato i libri di storia delle nostre scuole. Mi propongo, dunque, di smascherare alcune delle bugie più grossolane e falsi luoghi comuni sedimentati nel tempo, sebbene sia consapevole dell’impossibilità di poter dare in poche pagine un’informazione completa su un argomento così vasto. Ritengo, tuttavia, che anche un piccolo gesto possa essere utile per far affiorare la verità. In quest’aspirazione mi piace lasciarmi prendere da una vena fantastica, pensando alla storiella del colibrì: nella foresta in fiamme tutti gli animali fuggivano, ma il colibrì con una goccia d’acqua nel becco affrontava fieramente l’incendio per spegnerlo. Gli altri animali lo deridevano ripetendogli “dove vai, tu così piccolo con una sola goccia d’acqua contro l’incendio?”, ma lui impavido filava diritto dicendo “Io faccio la mia parte, voi dovreste fare la vostra”.

Cito subito una frase significativa che, pronunciata dallo stesso Garibaldi, fa comprendere come andarono effettivamente le cose: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili … non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. Leggendola è facile intuire che le cose per il Sud non furono così “rose e fiori” come ci raccontano. La popolazione del Regno delle due Sicilie fu la vera vittima dell’annessione e subì soprusi che portarono ad una vera e propria rivolta conosciuta già da allora con il termine dispregiativo di “brigantaggio”. Etichetta che voleva sottolineare che si trattava di assassini, saccheggiatori, rapitori, estorsori… ma che in realtà erano patrioti che lottavano contro un’invasione che li aveva prima derubati, in primis della dignità, e poi traditi con promesse non mantenute. Procedendo con ordine tratterò prima del Regno delle Due Sicilie, poi del tradimento delle illusorie promesse sabaude e infine del cosiddetto brigantaggio, soffermandomi in particolare su quello abruzzese e aquilano.


Il Regno delle due Sicilie


Era uno dei regni più antichi d’Europa, fondato nel lontano 25 dicembre del 1130 da Ruggero d’Altavilla, detto Ruggero il Normanno. In una manciata di decenni l’Emiro di Sicilia venne sconfitto, benché avesse un esercito più numeroso, e con l’abolizione della dhimma (la tassa che veniva imposta ai non musulmani) ci fu un periodo di grande rinascita economica. Inoltre è ampiamente comprovato dagli storici la pacifica convivenza di cristiani, ebrei, ortodossi, musulmani, latini, greci, bizantini, provenzali e normanni: tutto sotto la saggia guida del cattolicissimo Re Ruggiero che seppe assicurare con la sua giustizia una rara armonia. Era dunque un regno vichingo e la loro impronta è rimasta soprattutto nei castelli sparsi in tutti i territori. In Abruzzo sono molte le testimonianze, come il fiabesco castello di Rocca Scalegna o il poderoso castello d’Ocre, oggi purtroppo in completo abbandono, ma ancora fieramente svettante sulla piana del fiume Aterno. Le vicende storiche del Regno si sono poi alternate nel corso dei secoli, ma arrivò territorialmente intatto fino al 1860.

L’immagine che viene data del Regno delle due Sicilie è diversa a seconda delle fazioni: i neoborbonici lo descrivono come un’isola felice, uno Stato modello, mentre dai sabaudi (e dalla storia ufficiale) lo rappresentano come rozzo, arretrato, legato alla terra, analfabeta. Come in molti casi la verità sta nel mezzo. Non era certo “Utopia”, ma era uno Stato ben strutturato e all’avanguardia in moltissimi campi. Per avere un’idea concreta di ciò è sufficiente leggere il seguente elenco (parziale in realtà) di alcuni dei tanti primati che lo contraddistinsero, nella convinzione che aiuterà a smascherare le troppe bugie che sono state dette:

  • 1764 primi studi di epidemiologia in Italia con Michele Sarcone;

  • 1774 prima istituzione in Italia della motivazione delle sentenze (Gaetano Filangieri);

  • 1780 primo albo degli avvocati in Italia;

  • 1782 primo intervento in Italia di profilassi antitubercolare;

  • 1783 prime leggi antisismiche in Italia;

  • 1789 prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (San Leucio);

  • 1818 prima istituzione del sistema pensionistico in Italia (con ritenute del 2% sugli stipendi);

  • 1832 primo ponte sospeso in ferro nell’Europa continentale sul Garigliano;

  • 1833 più alto numero in Italia di vaccinati contro il vaiolo in rapporto alla popolazione (oltre 1.300.000 persone in venti anni);

  • 1833 prima nave da crociera in Europa (Francesco I);

  • 1835 primo istituto italiano per sordomuti;

  • 1839 prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, e prima illuminazione a gas di una città italiana (terza in Europa dopo Londra e Parigi) con 350 lampade;

  • 1840 prima fabbrica metalmeccanica d’Italia per numero di operai (1.050) a Pietrarsa

  • 1841 primo centro sismologico in Italia presso il Vesuvio;

  • 1844 prima istituzione di un marchio per la tutela di un prodotto (“d.o.c.” per l’olio pugliese);

  • 1845 primo Istituto al mondo per lo studio dei fenomeni vulcanici (Osservatorio Vesuviano);

  • 1855 primo telegrafo elettrico in Italia;

  • 1858 primo tunnel ferroviario italiano a Nocera;

E inoltre:

  • la più grande industria navale d’Italia per numero di operai (a Castellammare);

  • maggiore quantità di lire-oro conservati nei banchi nazionali in Italia (dei 668 milioni di lire-oro, patrimonio di tutti gli stati italiani messi insieme 443 milioni erano del Regno delle Due Sicilie);

  • la città più popolosa d’Italia, Napoli (447.065 abitanti rispetto ai 204.715 di Torino o ai 194.587 di Roma);

  • il più alto numero in percentuale di addetti all’industria in Italia (1.189.582 solo nel Mezzogiorno continentale);

  • primo stato italiano per percentuale di orfanotrofi, ospizi, collegi, conservatori e strutture di assistenza e formazione;

  • Prima Borsa Merci in Italia e seconda Borsa Valori dell’Europa continentale;

  • la più bassa percentuale di mortalità infantile;

  • la più alta percentuale di medici per abitanti in Italia;

  • più alto numero in assoluto e in percentuale di iscritti all’università in Italia (Napoli, 10.528);

  • prima città d’Italia per numero di giornali e riviste;

  • il minore carico tributario erariale in Europa.

Veramente uno Stato come questo vi sembra arretrato? Veramente era possibile che i sabaudi, in uno slancio di magnanimità, rispondessero “al grido di dolore” lanciato dagli italiani del Sud? Nessuno moriva di fame e nessuno chiedeva aiuto. A questo aggiungete il fatto che Il Regno di Sardegna era indebitatissimo: l’immensa cifra di 1.024.970.595 di lire (cifra calcolata da Angela Pellicciari studiando gli atti parlamentari del Regno di Sardegna). In queste condizioni è facile mettere gli occhi su un Regno, al contrario, con le riserve auree fra le più grandi d’Europa. Pensate che il Piemonte arrivò addirittura a vendere Nizza per avere l’alleanza dei francesi, cosa reputata dallo stesso Garibaldi (lui era nato proprio a Nizza) come “cosa da cloaca”.

Non si può non citare, per giustizia, il tradimento di molti ufficiali dell’esercito borbonico, pagati con laute “mazzette”. Basta ricordare che dei 12.000 soldati borbonici di stanza in Calabria ben 10.000 furono fatti arrendere dai loro ufficiali, senza poter sparare neanche un colpo. Ma anche nei primi momenti dello sbarco in Sicilia si riscontrano evidenti episodi di corruzione: a Calatafimi, ad esempio, 300 cacciatori dell’esercito borbonico stavano quasi per sbaragliare i mille garibaldini (al grido di “Mo’ venimme, mo’ venimme straccioni, carognoni, malandrini”), ma furono traditi dal generale Landi, corrotto dai piemontesi, che senza alcuna motivazione ragionevole ordinò ai suoi 3000 soldati di ritirarsi. Nella guerra contro l’invasore piemontese purtroppo i valorosi e fedelissimi soldati borbonici spesso non poterono combattere come avrebbero voluto, costretti all’inerzia dagli alti graduati collusi col nemico. Se avessero potuto farlo non c’è dubbio la storia sarebbe andata diversamente, come dimostrano gli episodi in cui ebbero questa opportunità.

L’azione di resistenza più eroica avvenne proprio in Abruzzo, a Civitella del Tronto, dove i soldati duosiciliani, uccidendo il loro capitano corrotto che voleva arrendersi ai piemontesi, resistettero fino alla fine, addirittura fino a 3 mesi dalla capitolazione di Gaeta e quindi dalla fine del Regno delle Due Sicilie: ai messaggi dei piemontesi in cui informavano i difensori di gettare le armi perché la guerra era finita loro rispondevano che non credevano a quelle parole, considerandole solo un vile stratagemma per farli arrendere. Una cosa è certa: a quei soldati non mancarono coraggio e determinazione.


Promesse mancate e soprusi.


Eviterò di parlare dell’impresa dei Mille, finanziata da massoni italiani e stranieri (principalmente inglesi), e passerò direttamente al periodo post unitario. Ci tengo solo a far notare un particolare che spesso non viene detto, cioè al piano politico di Cavour nato già da alcuni anni prima quando schiera il Regno di Sardegna -da poco diventato liberale- a fianco del dispotico governo turco e manda a morire in Crimea diverse migliaia di piemontesi. Nel 1856, al Congresso di Parigi, raccoglie i frutti del sangue versato: può denunciare al mondo intero la terribile sorte delle genti italiche che “gemono” sotto il malgoverno borbonico e pontificio. Al grido di “aiuto” del Sud il magnanimo re Vittorio Emanuele II è disposto a rispondere.

Inutile nascondere che i Savoia contribuirono alla distruzione del Regno delle Due Sicilie e della città di Napoli derubandole del loro patrimonio economico e finanziario. Sarebbe un crimine storico non riconoscere che l’unità d’Italia ha abbandonato il Sud a sé stesso: le condizioni si degradarono al punto che scoppiarono svariate epidemie nella seconda parte dell’Ottocento. Per debellare l’epidemia di colera, il governo De Pretis non seppe fare altro che pronunciare nel parlamento italiano il discorso con cui diede inizio ai lavori di risanamento della città; lavori, che nell’ottica governativa avrebbero dovuto ripristinare le condizioni igienico-sanitarie minime, mentre, invece, si tradussero nell’abbattimento delle mura quattrocentesche, nella distruzione di molti palazzi densamente abitati, provocando migliaia di sfollati e nella creazione di quartieri residenziali per la classe dirigente piemontese mandata ad amministrare il mezzogiorno.

Anche dal punto di vista della tassazione le cose non andavano meglio: Il Sole 24 Ore recita: “prima dell’unificazione mentre a Napoli non si pagavano le tasse di successione in Piemonte queste arrivavano al 10%”. Vanno citate anche le odiatissime tasse sul macinato e sulla pece che danneggiarono e vessarono le attività di pesca e agricole del Sud. Le esportazioni del porto di Napoli, prima floride, cessarono e le fabbriche vennero chiuse.

La mancata distribuzione delle terre fu un’altra cocente delusione per le popolazioni del sud che avevano creduto nell’annessione e come tocco finale la confisca dei beni ecclesiastici, prima utilizzati per aiutare i più poveri, e adesso venuti a grossi lotti e quindi a grossi proprietari terrieri.

Dal punto di vista delle opere pubbliche siamo sulla stessa linea: dopo l’unità d’Italia dei 458 milioni per bonifiche idrauliche se ne spesero al nord 455, al sud soltanto i rimanenti 3.

Questo piccolo elenco di misfatti si conclude con il peggiore: i crimini di guerra. Sto parlando delle insensate stragi nel 1861 di Casalduni e Pontelandolfo in cui i soldati piemontesi sfogarono la loro frustrazione di non riuscire a prendere i briganti e si scagliarono a rappresaglia contro la popolazione inerme (che è quella che ci rimette sempre in tutte le guerre): l’ordine era di circondare e assalire i due borghi coi fucili spianati e le baionette inastate. La sparatoria non risparmiò nessuno: furono uccisi giovani e vecchi, donne e fanciulle, chi protestava la propria innocenza e chi accorreva in difesa anche dei piccoli, pure quelli che si erano offerti, per antica convinzione, di combattere a fianco dei Piemontesi. Le cronache, vicine al tempo, riferiscono nomi di uomini insensatamente ammazzati lungo le vie o nelle abitazioni, di donne violentate o uccise con particolari che spingono al ribrezzo. Alla fine del massacro il colonnello Negri annunziò al Comando di Napoli per telegrafo: «Ieri, all’alba, giustizia fu fatta per Pontelandolfo e Casalduni».

Io non vorrei aggiungere nulla a tutto ciò, ma forse a questo punto è un po’ più chiaro perché fu quasi inevitabile l’esplosione di una rivoluzione armata, però questa volta contro l’Italia e non per l’Italia.


Il brigantaggio in Abruzzo



Avendo più chiara la situazione nel Sud Italia è facile capire perché si formarono bande di disperati che si opponevano all’occupazione sabauda. Non solo cittadini scontenti, ma anche ex militari dell’esercito borbonico, compresi gli ufficiali, sciolto troppo frettolosamente dal Governo: i capitani borbonici erano malvisti, derisi, maltrattati dai reparti dell'esercito italiano e piuttosto che sopportare quella situazione preferivano aggregarsi alle bande dei briganti. La reazione era guidata da uomini di alto rango fedeli alla corona borbonica, principalmente i fratelli di Ferdinando II. I piani insurrezionali che vennero escogitati furono parecchi e, fra questi, due avevano qualche fondamento di serietà. Il primo porta la data del novembre 1861 e si trattava di affidare a cinque briganti (Chiavone, Cetrone, Falsa, Capoccia e Pischitiello) la formazione di altrettante bande; esse si vennero a costituire come un vero e proprio esercito, con arruolamenti e paghe, per adempiere a questi compiti s'impiantarono quattro uffici: a Roma, a Velletri, ad Anagni, ed un altro nel convento degli Scifelli.

Il secondo piano, dell'agosto 1862, prevedeva, invece, un'azione che si doveva svolgere contro Avezzano, richiamando lì le forze italiane dislocate a Tagliacozzo e nel Cicolano, in modo da creare dei varchi al confine, per uno dei quali sarebbe passato Francesco II nel rientrare trionfalmente a Napoli e sollevare le popolazioni. La trama però era già stata segnalata alle autorità italiane e le notizie in proposito indicavano anche un concentramento di un migliaio di briganti che, agli ordini del marchese di Orsogna, sarebbero avanzati su Atessa e Lanciano, qualora non fosse riuscito il piano contro Avezzano. Da notare che alle bande “locali” ce n’erano altre composte da forestieri, principalmente spagnoli, quasi sicuramente invitati dalla corte borbonica a venire in Italia; la più famosa fu quella comandata dal catalano don Josè Borjas.

Il modus operandi delle bande era quello della classica guerriglia: colpire a sorpresa e rapidamente laddove il nemico è più debole, dileguandosi poi nei boschi e nei tortuosi sentieri dei monti, inestricabili per chi non li conosceva. Attacchi a diligenze e corriere, imboscate a piccoli distaccamenti, attentati, sabotaggi, saccheggi di masserie e requisizione di bestiame ai liberali ai danni dei quali c’erano anche estorsioni, rapimenti e ricatti. Alcune bande superarono i 1.000 uomini, con reparti di cavalleria. L'armamento era vario ed era il più delle volte materiale di preda bellica, consistente nella doppietta a schioppo ad una canna a cui si aggiungeva una o due pistole alla cintura, bandoliera con cartucciera e vari tipi di armi bianche. I capi avevano carabina a percussione e revolver, sciabola e baionetta.

Il popolo vedeva in loro non dei sobillatori dell'ordine, ma una specie di milizia proletaria che difendeva le antiche istituzioni e che, per le sue sofferenze, era degna di essere aiutata e sorretta materialmente e moralmente: “i cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge” dichiarava nel 1863 il Generale Govone. Una specie di eroe spietato e crudele, ma nello stesso tempo galantuomo, capace di togliere al ricco per dare al povero. Un rapporto di amore-odio, simpatia e timore, da sempre espressione degli ambienti sociali più umili che canteranno le gesta dei briganti più famosi facendoli diventare soggetto di leggende popolari.

Uno stornello che circolava in quel periodo tra i contadini, e sicuramente fra i briganti, recitava così: "Vittorie Mmanuèle, re de munnezze! Gariboalde le porte a capèzze! Maria Zufie, reggine di bellezze! E Francischille, Re de ricchezze!"

Il brigante più famoso di tutti fu certamente Carmine Crocco (su cui è stato girato anche un film nel 1999: “Li chiamarono briganti”. Disponibile su Youtube). La storia di Carmine è emblematica perché lui fu addirittura un garibaldino, si unì ai mille incantato da promesse che poi si rivelarono tutte false (come per la maggior parte del popolo). Per lui ci sarebbe dovuta essere l’amnistia e l’inserimento nella guardia nazionale, ma niente di tutto ciò accadde, anzi fu bruscamente rifiutato. Da qui la sua cocente delusione e la consapevolezza di essere stato tradito. Divenne comandante i un esercito di 2.000 uomini a capo del quale, sventolando il vessillo del Regno delle Due Sicilie, fece tremare il nuovo Stato italiano appena costituito infiammando gli animi delle campagne lucane. La gente lo acclamava e lo appoggiava, fu soprannominato “Napoleone dei briganti” per la sua acuta intelligenza e la sua capacità bellica. Lo stesso generale Pallavicini (inviato dal Governo a catturare Crocco, già famoso per aver fermato Garibaldi sull’Aspromonte) riconoscerà che possedeva “vere qualità militari” ed era “abilissimo nella guerriglia”. Fra i briganti più in vista della sua banda spiccavano Giovanni “Coppa” Fortunato, Caporal Teodoro, Ninco Nanco e Giuseppe Caruso. Proprio quest’ultimo lo tradì e lo consegnò al generale Pallavicini, indicando dove era il suo nascondiglio e guidando addirittura le truppe. Crocco oppose una strenua resistenza e riuscì a non essere mai catturato. Ironia della sorte si consegnò alla gendarmeria del Papa presso Veroli, per avere protezione, ma questi, invece, lo imprigionarono. Crocco stesso le perdonò sostenendo che non lo avrebbero potuto lasciare libero perché il governo italiano le avrebbe accusate di favoritismo e protezione dei briganti. Venne processato dalla Gran Corte Criminale di Potenza e condannato a morte, ma poi la pena venne commutata in carcere a vita, che scontò a Portoferraio. Lì mantenne sempre un atteggiamento calmo e disciplinato e anche il criminologo Pasquale Penta che volle visitarlo lo descrisse come “capace di grandi reati, ma anche di generosità, sentimenti nobili e belle azioni”. Scrisse la sua autobiografia che fu pubblicata nel 1903 e poi ripubblicata nel 1964.

Per combattere il brigantaggio il neo governo italico oppose un esercito di ben 120.000 uomini più altre migliaia di guardie nazionali assoldate sul posto. Visti gli scarsi risultati di questo intervento armato alla fine del 1863 fu costretto a promulgare una vera e propria legge di guerra, la Legge Pica che, ironia della sorte, venne promossa proprio da un parlamentare del Sud, appunto Giuseppe Pica dell’Aquila. Fu la carta bianca che permise alle truppe piemontesi e alle milizie volontarie di condurre una vera e propria caccia all’uomo e di infierire sui simpatizzanti, sui familiari e sulle popolazioni in generale.

Majella: in Abruzzo il brigantaggio fu principalmente concentrato su questa montagna che con le sue grotte, fitte faggete, valloni e precipizi era il luogo ideale per azioni furtive ed evasive. Fra il 1861 e il 1867 furono attive una decina di bande conosciute con il nome comune di Banda della Majella (curiosa è l’assonanza fonica con la più conosciuta “Banda della Maiana”, che, ovviamente, non c’entra nulla). Stesso discorso può essere fatto per il Morrone che aveva un territorio molto simile e rendeva la vita difficile alla guardia nazionale sabauda non abituata a scontri in territori così aspri. Proprio lì operò la banda detta dei Sulmontini (di circa 30 elementi) con a capo Antonio La Vella, estendendo l’area di influenza dalla Valle Peligna fino al Bosco di Sant'Antonio e Pescocostanzo. Tutti i componenti della banda furono processati e condannati nell'ottobre del 1863. Di Sulmona erano i fratelli

Giuseppe e Felice Marinucci, mentre il temutissimo Fabiano Marcucci (detto Primiano) era di Campo di Giove.

Fra Introdacqua, Scanno e Frattura operava la banda Introdacquesi, che ebbe come rifugio ideale i fitti boschi del monte Plaia.

Del circondario di Sulmona il più famoso di tutti fu il brigante Vincenzo Tamburini: rimase nella leggenda per la sua clemenza e la sua inclinazione allo scherzo. Con i suoi travestimenti si faceva beffa dei carabinieri presentandosi nei modi più impensati. Si racconta che una volta si presentò vestito da venditore di coltelli rubati all’esercito ad un ritrovo di ufficiali in un caffè di Sulmona senza che nessuno lo riconoscesse.

Una curiosità sul brigantaggio sulla Majella: le truppe sabaude costruirono un avamposto fortificato per contrastare i briganti (noto come Blockhaus), ma quest’ultimi, conoscendo alla perfezione il territorio, non solo non erano preoccupati dell’avamposto fortificato, ma si prendevano anche gioco dei soldati piemontesi, beffandoli con incisioni dei loro nomi e dei loro messaggi antiunitari proprio a due passi dal fortino. La più nota recita: “Leggete la mia memoria per i cari lettori. Nel 1820 nacque Vittorio Emanuele Re d’Italia. Prima era il regno dei fiori, ora è il regno della miseria”. Queste incisioni sono diventati una testimonianza d’eccezione del brigantaggio sulla Majella ed oggi questo lastrone calcareo è conosciuto come la “Tavola dei Briganti”. E’ raggiungibile per chi vuole fare un po’ di trekking ripercorrendo un piccolo pezzettino di storia d’Abruzzo: si parte dal rifugio CAI Sez. Majella “Bruno Pomilio" fino alla Madonnina, da qui si prende il sentiero che aggira a destra la vetta del Blockaus e lo si segue lasciando tutte le deviazioni; passata la cima di Monte Cavallo si giunge ad un incrocio, sulla destra, indicato da una freccia e da un omino di pietra, si segue il sentiero che sale leggermente fino a raggiungere le rocce con le incisioni.

Teramo: è in questo territorio, chiamato ai tempi Abruzzo Ulteriore Primo, che si trova la fortezza borbonica di Civitella del Tronto e gli avvenimenti che accaddero in queste zone ebbero, almeno fino alla capitolazione di Civitella del Tronto, una prevalente connotazione bellica e di guerriglia organizzata e come tale da collegarsi solo in parte ad atti di brigantaggio. Si trattava di operazioni militari per alleggerirne l’assedio, consentirne il rifornimento alle truppe e impegnare i piemontesi in settori secondari. A tali operazioni parteciparono anche nuclei della guarnigione usciti da Civitella del Tronto, e alcuni capi della guerriglia, tra cui emersero Bernando Stramenga, Gaetano Troiani e Angelo Florj. Con la resa di Civitella non cessò la loro lotta: non solo non abbandonarono il territorio, ma si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose della provincia e della Valle Castellana. Da lì partivano le loro incursioni per sabotaggi e razzie nelle zone intorno a Isola del Gran Sasso, Assergi, Colledara, Valle Castellana, Pietracamela, Tossicia e Castelli. Questo continuò fino alla cattura di Bernardo Stramenga avvenuta nel 1863 dopo un’azione che lo portò addirittura a risalire l’alta valle del fiume Vomano fino ad occupare Fano Adriano. Qui vennero accerchiati da reparti del 4° e del 41º fanteria, da carabinieri e da guardie nazionali. Tentarono di ripiegare sui monti di Leonessa, ma furono sbaragliati: 13 briganti furono fucilati e altri 17 catturati durante successivi rastrellamenti. Il 19 maggio 1863 lo Stramenga, assieme ad altri superstiti della sua banda, riuscì a riparare in territorio pontificio dove fu arrestato dalle truppe pontificie. Scontata la pena emigrò all’estero dove morì.

Chieti: di questa provincia non si può non citare la banda del brigante Nunziato di Mecola, contadino nativo di Arielli, che imperversò nei paesi di Arielli, Ari, Canosa, Tollo, Miglianico, Orsogna e Vasto. La sua fama però non è delle migliori essendo ritenuto crudele e colpevole di molti crimini. Insieme a lui troviamo Domenico Valerio, detto il “Cannone”, che evaso dal carcere nel 1862 agì nei dintorni di Lanciano e Vasto, dandosi a crimini senza alcun alibi politico. La sua banda infuriò fino al 1867. Sempre nella zona di Lanciano operarono i fratelli Di Sciascio, Policarpo Romagnoli e Salvatore Scenna che attaccarono masserie e più volte riuscirono a sabotare la linea ferroviaria in costruzione.

L’Aquila: qui iniziarono presto le operazioni di brigantaggio, ma era più che altro guerriglia organizzata. Infatti nel 1860 venne allestita a Gaeta una brigata leggera al cui comando fu posto il colonnello Theodor Friedrich Klitsche de la Grange. A discapito del nome, che rimanda indubbiamente alla Francia, era tedesco (Magdeburgo, 28/03/1797). Questi riuscì abilmente a occupare Sora, ma le sue vittorie ebbero un effetto molto più potente e ampio perché diedero speranza e forza alle popolazioni da cui si generarono sommosse e disordini in numerosi paesi: Campo di Giove, Palena, Pettorano sul Gizio, Rivisondoli, Roccaraso, Castel di Sangro, Tagliacozzo, Carsoli, Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio, Rovere e Terranera. A questi si unì la più importante Avezzano con praticamente tutto il suo circondario: rimasero in mano dei liberali i soli comuni di Magliano de' Marsi e di Gioia dei Marsi. Le truppe di Vittorio Emanuele II non si fecero attendere e il 12 ottobre entrarono in Abruzzo, avanzando per obiettivi fissati divisi in vari scaglioni. La brigata “Bologna” (39°-40°), posta agli ordini del generale Ferdinando Augusto Pinelli, raggiunse Terni per poi trasferirsi verso fine ottobre all'Aquila, mentre le truppe del IV e del V Corpo d'Armata, dopo aver occupato pacificamente il 16 la Fortezza di Pescara, si riunirono il 19 ottobre a Roccaraso per proseguire la loro avanzata verso Isernia. Superata Roccaraso, le truppe piemontesi si scontrarono il 20 ottobre al valico del Macerone con le forze del generale borbonico Douglas-Scotti che subì una pesante sconfitta. De la Grange terminò le sue operazioni militari quando il re Francesco II delle Due Sicilie capitolò a Gaeta di ritirò a Roma dove visse fino al 1868 anno della sua morte.

Oltre le brigate “ufficiali” sorsero numerose altre bande che operarono nel territorio e qui di seguito elenchiamo i briganti che più fecero parlare di loro in quel periodo, con le loro azioni più o meno “genuine” nelle intenzioni (nessuno potrà mai dirlo).

  • Salvatore Sottocarao, detto “Zeppetella”: il brigante cioè che fece parlare di sé così tanto da essere quasi nella leggenda. Al secolo era Salvatore Sottocarao e nacque il 29 Giugno 1830 presso Villagrande da Pasquale e da Mariangela Ponziani. Sembrava avviato al suo destino di bravo ed onesto contadino, ma dopo l’Unità d’Italia si diede alla macchia unendosi con i briganti di Tornimparte, con la quale rimase fino all'estate del 1866. Già dal 1867 però, Zeppetella si staccò da questa banda formandosi una propria banda di cui i principali esponenti, oltre a lui, erano Diodato Innocenzi, Spera Trapasso e Amedeo del Soldato. Proprio con questi ultimi due Zeppetella era sulle montagne di Preturo e di Cagnano nell'ottobre del 1868: tutti e tre andavano armati con fucili a due canne a retrocarica e revolver, vestivano calzoni lunghi con stivaloni fino a mezza gamba. Dopo aver scorrazzato in lungo e in largo nel circondario soprattutto aquilano, ricercato per un'infinità di reati, Salvatore Sottocarao fu catturato il 27 ottobre del 1869 sulla montagna di Cascina presso Cagnano dai carabinieri di Pizzoli. La Corte di Assise del circolo di Aquila condannò il Sottocarao con una sentenza del 10 novembre 1870 alla pena dei lavori forzati a vita. Un particolare curioso da notare nei riguardi di Zeppetella è che egli era uno dei pochi briganti della nostra zona che sapesse leggere e scrivere.

  • Spera Trapasso: un bravo ragazzo, giovane bracciante nato a Colle di Lucoli il 29 maggio 1825 da Domenico e da Palena Maria Colatigli. Diventò uno dei briganti più famigerati delle montagne di Preturo, Lucoli e Cagnano insieme con Zeppetella e Amedeo Del Soldato. Fu catturato il 25 gennaio 1869 in un pagliaio di proprietà di Murri Pasquale di Casa Vecchia di (Lucoli) dai carabinieri di Tornimparte e dai soldati, del 44° fanteria, distaccati in Lucoli. Con la sentenza del 10 Novembre 1870 fu condannato dalla Corte di Assise del circolo di Aquila alla pena dei lavori forzati a vita.

  • Amedeo Del Soldato: nato a Colle di Lucoli il 28 Febbraio 1840 da Innocenzo e da Luisa Giannoni. Fu prima garzone a servizio della marchesa Quinzi, poi soldato borbonico, ed infine si diede alla macchia per non arruolarsi nelle file dell'esercito italiano. Già nelle cronache del 1862 è nominato quale uno dei più pericolosi briganti sulle montagne di Tornimparte e Lucoli: di "statura piuttosto alta, con barba lunga, di bell'aspetto". Operava con il grado di "caporale" sotto il comando di Zeppetella sulle montagne di Preturo, Cagnano, Lucoli. Amedeo Del Soldato fu uno dei pochi che rimase ucciso durante qualche azione: il 1 gennaio 1869 venne ucciso presso Torre di Taglio in uno scontro a fuoco.

  • Berardino Viola. Berardino Viola nacque Teglieto il 24 o 29 Novembre 1838 da Angelo, guardia doganale, e da Marianna Rossetti, filatrice. Quando era bambino il sacerdote Felice Brizi gli insegnò a leggere e scrivere. A 22 anni, nell'ottobre del 1860 Berardino faceva parte del drappello di guardie nazionali guidato dal capitano Francesco Mozzetti e dal primo sergente Anacleto Desideri per reprimere la reazione. Ma da “guardia” si trasformò in “ladro” e si diede al brigantaggio già al 1862, forse per aver realizzato l’inganno a cui era stato sottoposto. Berardino era di "Colorito bruno, occhi castano sanguigno, capelli negri, barba rada e nera con mostacchi e Napoleone quasi congiunti insieme. Corporatura regolare, piuttosto spalluto. Volto piuttosto ovale, vestito a panno negro. Cappello tondo nero pieghevole, basso con sottogola". Nel 1865 si hanno tracce di lui in carcere e la Corte d'Assise del circolo di Aquila con una sentenza del 17 giugno 1873 lo condannava ai lavori forzati a vita commutata poi in ventiquattro anni di reclusione.

  • Croce di Tola. Un pastore di Roccaraso che fu a capo della banda fra le bande in assoluto più temibili e longeve (si sciolse solo nel 1871). Il 5 giugno del 1871 venne catturato e condannato a morte per fucilazione, pena poi convertita all'ergastolo. Questo arresto, insieme alla cattura nel 1871 di Primiano Marcucci di Campo di Giove, segna la fine del brigantaggio nella Valle Peligna.

Per quanto riguarda il brigantaggio nell’aquilano non si può non citare lo studio effettuato da don Filippo Murri e riportato nella sua opera "Lucoli, profilo storico". In questo scritto viene evidenziata una relazione che il prefetto dell’Aquila, Giuseppe Alasia, redige nel dicembre 1863 per riferire al deputato Giuseppe Pica (anch’esso, ironia della sorte, aquilano) le modalità con cui aveva fatto applicare la legge per la repressione del brigantaggio nella provincia dell'Aquila. Nella relazione il prefetto dice che le bande di briganti riconosciute come tali, erano principalmente tre:

1) La banda di Tamburini che si aggirava per le province dell'Aquila, di Chieti e per il Molise, composta da circa quindici individui;

2) La banda detta di "Luco e Trasacco" perché operava quasi sempre nei dintorni di quelle zone, composta di circa dieci elementi;

3) La banda di "Tornimparte", detta così perché i fuorilegge abitualmente agivano nelle vicinanze di quelle frazioni, che era composta da circa sette persone.

Inoltre il prefetto dice che però molti di più erano i briganti effettivi e sebbene i carabinieri avessero dovuto affrontare fatiche, disagi e pericoli per cercare di combatterli, non erano riusciti ad arrestarne nemmeno uno.


Conclusioni


I briganti nacquero come movimento di resistenza all’invasione sabauda, inizialmente finanziati dalla nobiltà borbonica (compreso il legittimo re Ferdinando II) e dalla Chiesa. Erano i tenaci patrioti fedeli fino alla fine alla loro nazione, un po’ come gli impavidi indiani d‘America e le imprese dei loro leggendari capi Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa e Geronimo. Ad oggi i guerrieri apache e sioux sono stati riabilitati e non sono più considerati criminali, ma eroi, grazie anche ad una cinematografia che ha cambiato nelle persone la percezione di quelle tribù. Cosa che non è ancora accaduta per i briganti, ma alla fine, sono sicuro, che la verità verrà a galla e anche loro avranno la gloria che meritano. Nel 1863 il legittimo sostegno viene meno e il movimento in teoria perde quel carattere di ufficialità e liceità che dovrebbe avere. Da quel momento in poi la maggior parte dei briganti continuerà la lotta per motivi ideali, ma non si può più assicurare questa genuinità per la loro totalità ed è impossibile distinguere fra cause nobili e meno nobili.

Braccati da un esercito di 120.000 soldati regolari sabaudi (quasi metà dell’intero esercito), non supportati più da nessuna corona, traditi, stanchi dopo anni di guerriglia nei boschi, gli ultimi irriducibili briganti vennero inseguiti e man mano uccisi in combattimento o con esecuzioni sul posto, oppure imprigionati. Nel 1871 era tutto finito: le bande erano state annientate, l’ordine ristabilito; il silenzio scende sui perdenti, il nuovo Stato ha vinto e si affretta ad insabbiare tutto fra gli scaffali degli archivi dei Tribunali, delle Prefetture e dello Stato Maggiore dell’Esercito.

Giacomo Chiusi

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